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Romanzi romantici in un solo posto

reader.chapterL’Ombra nello Specchio


Lea Voss

Nebbia densa avvolgeva la strada sterrata come un velo, inghiottendo ogni suono tranne il rantolo stanco del motore della mia vecchia auto. La sagoma decadente di Villa Voss emergeva davanti a me, un’ombra minacciosa contro il cielo grigio dell’alba, con torri sgretolate e finestre che sembravano occhi ciechi. Spensi il motore, il silenzio che seguì era quasi soffocante, rotto solo dal vento che sibilava tra i rami spogli. Scesi dall’auto, i miei stivali che scricchiolavano sulla ghiaia umida, e il freddo mi morse la pelle, facendomi rabbrividire sotto la maglia morbida color terra. Le mie dita sfiorarono istintivamente il ciondolo d’argento appeso al collo, un ricordo della nonna Greta, un peso familiare che in quel momento sembrava bruciarmi la pelle.

“Cosa mi hai lasciato, nonna?” sussurrai tra me e me, la voce che tremava nell’aria gelida. Il profumo di terra bagnata e muschio mi avvolse, mentre i rami intorno scricchiolavano come se la villa stessa mi stesse osservando, in attesa. Mi avvicinai al portone di legno massiccio, intagliato con motivi strani che sembravano quasi muoversi sotto la luce fioca. Spinsi con forza, e il cigolio dei cardini riecheggiò come un lamento antico. L’interno odorava di cera vecchia e legno marcio, un misto che mi fece stringere lo stomaco. Il freddo pungente delle pareti di pietra sembrava insinuarsi nelle ossa, nonostante il tepore di un camino che intravedevo in fondo al corridoio, sempre acceso, come se qualcuno lo avesse appena abbandonato.

Chiusi il portone alle mie spalle con un tonfo sordo, lasciandomi avvolgere dall’oscurità della sala principale. I miei occhi si abituarono lentamente, rivelando dettagli che mi strinsero il cuore in una morsa di nostalgia e inquietudine. Arazzi logori pendevano dalle pareti, raffigurando figure di guaritori con mani protese verso bestie feroci, i loro occhi ricamati che sembravano seguire ogni mio movimento. Un antico specchio incrinato dominava un angolo della stanza, la superficie offuscata dal tempo ma ancora abbastanza chiara da riflettere il mio volto pallido. Mi avvicinai, i miei passi che facevano scricchiolare il pavimento di legno, e mi fermai a un respiro dal vetro. I miei capelli castani, mossi, cadevano in ciocche disordinate sulle spalle, i riflessi ramati appena visibili nella penombra. Ma furono i miei occhi a farmi gelare il sangue.

Verde intenso, quasi innaturale, brillavano con un bagliore ferino che non avevo mai visto prima. Mi toccai il viso con mani tremanti, il cuore che martellava nel petto. “Non può essere…” mormorai, la voce spezzata. Mi avvicinai ancora, il respiro che appannava il vetro, e per un istante giurai di vedere qualcosa muoversi dietro il mio riflesso. Un’ombra, indefinita, che sparì non appena sbattei le palpebre. Un brivido mi corse lungo la schiena, ma non potei distogliere lo sguardo. Poi, un calore improvviso mi fece sobbalzare. Il ciondolo d’argento al mio collo si scaldò, quasi bruciandomi la pelle. Lo afferrai, strappandolo via con un gesto istintivo, ma il metallo sembrava pulsare tra le mie dita, come se fosse vivo.

Un sussurro, appena percettibile, mi fece voltare di scatto. Veniva dalle pareti, o forse dall’aria stessa, un suono che sembrava formare parole che non riuscivo a comprendere. “Chi c’è?” chiamai, la voce che tremava più di quanto volessi. Nessuna risposta, solo il silenzio pesante della villa che sembrava schiacciarmi. Mi sentivo come un albero spezzato dal vento, le radici divelte, incapace di trovare un appiglio. Eppure, qualcosa dentro di me, un’eco profonda e inspiegabile, mi spingeva a non fuggire. A restare. A scoprire.

Con il cuore in gola, lasciai la sala principale e mi avviai lungo un corridoio buio, le pareti ornate da altri arazzi che raccontavano storie dimenticate. Ogni stanza che attraversavo sembrava più fredda della precedente, un gelo che non aveva nulla a che fare con l’inverno rigido fuori. Passai davanti a una vecchia poltrona logora, dove da bambina mi sedevo sulle ginocchia di nonna Greta mentre mi raccontava storie di antichi rituali e spiriti della foresta. Ricordavo la sua voce, calda ma ferma, che mi ammoniva a non temere il mistero, ma a rispettarlo. “La luna non mente, bambina, ma può ingannare,” mi diceva spesso. Quelle parole ora mi pesavano addosso come un presagio.

Raggiunsi la stanza di Greta, un luogo che non vedevo da anni, ma che sembrava intatto, come se lei fosse appena uscita. Il letto, con la sua coperta di lana logora, era esattamente come lo ricordavo. Mi inginocchiai accanto ad esso, spinta da un istinto che non riuscivo a spiegare, e infilai una mano sotto il telaio. Le mie dita sfiorarono qualcosa di duro e freddo. Una scatola di legno, incisa con simboli che sembravano pulsare sotto la luce fioca che filtrava dalla finestra. La tirai fuori con mani tremanti, il legno ruvido che mi graffiava la pelle. Quando sollevai il coperchio, il mio respiro si mozzò.

Dentro c’era un diario, la copertina di cuoio consunto e le pagine ingiallite che odoravano di tempo. Lo presi, il peso del volume che sembrava quasi vivo tra le mie mani. Sulle prime pagine, la calligrafia elegante di Greta tracciava parole che non riuscivo a decifrare subito, accanto a simboli strani, spirali e mezzelune che sembravano brillare debolmente. Sfogliai con cautela, il cuore che batteva forte, finché i miei occhi non si fermarono su una frase che mi fece gelare: “Un patto spezzato sotto la luna, un sangue che lega e condanna.” Accanto, un disegno grossolano di una figura umana con occhi ferini, proprio come i miei nello specchio poco prima.

“Licantropi…” sussurrai, la parola che mi usciva dalle labbra come un veleno. Non poteva essere vero. Non io. Eppure, mentre leggevo, sentivo un vuoto dentro di me riempirsi di qualcosa di oscuro, di selvaggio, come se una parte dimenticata di me stesse risvegliandosi. Chiusi il diario con un gesto brusco, il suono che riecheggiò nella stanza silenziosa, e mi alzai, stringendolo al petto. Dovevo capire. Dovevo sapere cosa significasse tutto questo.

Tornai nella sala principale, i miei passi più sicuri ora, anche se il freddo innaturale della villa sembrava stringersi attorno a me come una morsa. Mi sedetti al tavolo polveroso, il diario davanti a me sotto la luce tremolante di una candela che accesi con mani incerte. Le mie dita sfiorarono i simboli tracciati con inchiostro sbiadito, ogni linea che sembrava bruciarmi la pelle attraverso il contatto. Il cuore mi martellava nel petto, un tamburo che scandiva il tempo di una verità che non ero sicura di voler affrontare. “Cosa hai fatto, nonna?” mormorai, la voce che si perdeva nel silenzio.

Alzai lo sguardo verso lo specchio incrinato dall’altra parte della stanza, quasi contro la mia volontà. La mia immagine riflessa mi fissava, i miei occhi verdi ancora troppo luminosi, troppo selvaggi. Ma non ero sola. Per un istante, giurai di vedere un’ombra muoversi dietro di me nel vetro, una forma indefinita che sparì non appena sbattei le palpebre. Un brivido mi corse lungo la schiena, il respiro corto, ma una determinazione ferrea si accese dentro di me, un fuoco che non potevo spegnere. Dovevo scoprire la verità, a qualsiasi costo.

La candela sfarfallò, proiettando ombre danzanti sulle pareti, e per un momento mi sembrò che la villa stessa trattenesse il fiato, in attesa di ciò che sarebbe venuto dopo.