reader.chapter — Sussurri nella Nebbia
Alina
Una lama di luce grigia filtra dalle fessure della finestra, tagliando l’oscurità della mia stanza come un coltello. Mi sveglio di soprassalto, il cuore che martella nel petto, il respiro corto come se avessi corso per ore. Il sogno è ancora vivo, bruciante dietro le palpebre chiuse: la Foresta di Selvoscuro mi inghiotte, i rami che graffiano la pelle, il terreno umido sotto i piedi nudi. Lupi, ombre scure con occhi di brace, mi inseguono, i loro ululati un coro che mi spinge avanti, verso un altare di pietra fredda, illuminato da una luna così grande da sembrare irreale. La sua luce argentea mi avvolge, e sento una pulsazione al collo, dove il ciondolo – l’unico ricordo di un passato che non conosco – brilla come se fosse vivo.
Mi porto una mano al petto, sfiorando il metallo freddo contro la pelle. Anche ora, sveglia, sembra vibrare leggermente, un’eco di quel sogno che non riesco a scrollarmi di dosso. Il pavimento sotto di me è gelido, un morso che mi riporta alla realtà della mia stanza spoglia nella casa di mamma. Le pareti di pietra sono nude, screpolate dal tempo, e l’aria sa di umidità e di legna bruciata dal camino spento. Fuori, il vento sibila, un lamento basso che sembra chiamare il mio nome. Mi alzo, avvolgendomi nella coperta di lana ruvida, e mi avvicino alla finestra. La nebbia avvolge il Borgo di Pietraluna come un sudario, nascondendo le colline lontane, ma so che è là, la foresta. Selvoscuro. La sento, un richiamo che mi tira come un filo invisibile, anche se ogni fibra del mio corpo dovrebbe temerla.
Scuoto la testa, cercando di scacciare quel pensiero. “Basta, Alina,” sussurro a me stessa, la voce tremante nel silenzio. Ma non basta. Non è mai abbastanza. Non quando ogni notte mi perdo in sogni che sembrano più veri della mia vita qui, tra queste mura che mi soffocano. Mi vesto in fretta, infilando jeans logori e una maglia di lana color terra, le mani che tremano mentre lego i capelli in una coda disordinata. Il ciondolo poggia sul mio petto, un peso che non posso ignorare. Lo stringo per un momento, quasi volessi spremerne fuori delle risposte, ma resta muto, freddo.
La cucina è avvolta in un silenzio teso quando scendo. Mamma è già sveglia, come sempre, china sul tavolo a impastare il pane con movimenti secchi, quasi arrabbiati. I suoi capelli castani, striati di grigio, sono raccolti in una treccia severa, e i suoi occhi verdi – così simili ai miei, ma duri, segnati da anni di preoccupazioni – mi lanciano un’occhiata veloce prima di tornare al lavoro. “Mattina,” borbotta, senza calore. Non è mai stata una persona di tante parole, ma ultimamente ogni conversazione sembra un campo minato.
“Mattina, mamma,” rispondo, la voce morbida, esitante. Mi siedo con una tazza di latte tiepido, osservando il modo in cui le sue mani si muovono, rapide e precise. Vorrei dirle del sogno, delle ombre e della luce, ma so che non dovrei. Non posso. Eppure, le parole mi sfuggono, come se avessero una volontà propria. “Ho sognato di nuovo… la foresta. C’era un altare, e…”
“Non devi neanche pensarci, Alina.” La sua voce mi interrompe, tagliente come una lama. Le sue mani si fermano, l’impasto abbandonato sul tavolo, e mi fissa con uno sguardo che è pura paura mascherata da rabbia. “La foresta non è per noi. Non lo è mai stata. Punto.”
Il mio cuore si stringe, ma non mi arrendo. Non oggi. “Perché no? Perché non mi dici mai niente? Ogni volta che chiedo, ti chiudi come un riccio. Io… io ho bisogno di sapere, mamma. Questi sogni, non sono solo sogni. Lo sento.”
Elisa si irrigidisce, le labbra che si stringono in una linea dura. Per un momento penso che stia per urlare, ma poi distoglie lo sguardo, tornando all’impasto con una forza che non serve. “Ci sono cose che non puoi capire, e non devi,” mormora, così piano che quasi non la sento. Ma quelle parole pesano, come pietre gettate in uno stagno, creando onde che non so come fermare.
Mi alzo, il latte intatto nella tazza, e mi muovo verso la porta. “Vado ai campi,” dico, senza guardarla. Non voglio vedere la delusione nei suoi occhi, o peggio, la paura. Ma mentre passo accanto al pavimento scricchiolante, il mio sguardo cade su un dettaglio che non avevo mai notato davvero prima: una sezione del legno sembra diversa, più consumata, come se nascondesse qualcosa. Un baule, forse? Il cuore mi balza in gola, ma non oso avvicinarmi, non sotto il suo sguardo. Sento i suoi occhi su di me, un peso che mi inchioda, e mi affretto a uscire.
Fuori, l’aria è fredda, pungente, e la nebbia mi avvolge come un abbraccio umido. Il Borgo di Pietraluna si sveglia piano, con il suono delle campane lontane e il fumo che si alza dai camini delle case di pietra. Mi incammino verso i campi, il terreno fangoso che mi succhia gli stivali a ogni passo. Il lavoro è duro, come sempre, la schiena che brucia mentre raccolgo le ultime zucchine autunnali sotto lo sguardo giudicante degli anziani. Mi osservano dai margini del campo, le loro voci basse che si mescolano al vento, probabilmente a commentare quanto sembri “strana” ultimamente. Non mi guardano mai negli occhi, non davvero. Non lo fanno mai le donne come me, quelle che non si piegano del tutto alle loro regole, alle loro superstizioni. Stringo i denti, le mani graffiate dalle spine, e cerco di ignorarli. Ma dentro, ogni loro sguardo è un’altra catena che mi lega a questa vita che non voglio.
Durante una pausa, mi rialzo, asciugandomi il sudore dalla fronte con il dorso della mano, e volgo lo sguardo verso l’orizzonte. Là, oltre le colline, la Foresta di Selvoscuro si staglia come un’ombra vivente, una macchia scura che sembra pulsare, chiamarmi. Il vento si alza, freddo, e mi sfiora la pelle come una carezza, portando con sé un odore di terra bagnata e felci selvatiche. Il cuore mi batte più forte, un tamburo che non posso zittire. È come se qualcosa dentro di me si risvegliasse, un’eco di quel sogno, un bisogno che non so nominare. “Che diavolo vuoi da me?” sussurro al vento, stringendo il ciondolo fino a farmi male alle dita. Ma non c’è risposta, solo il sibilo tra gli alberi lontani, un canto che mi attira e mi spaventa allo stesso tempo.
Tornata a casa, il silenzio tra me e mamma è più pesante di prima. Ceniamo senza parlare, il rumore delle posate contro i piatti l’unico suono nella stanza. Ogni tanto i suoi occhi mi scrutano, ma non dice nulla. Io non dico nulla. Eppure, il peso di quel baule sotto il pavimento mi ossessiona. Lo vedo con la coda dell’occhio, un segreto tangibile che mi chiama quanto la foresta. Vorrei chiederle, inginocchiarmi e aprire quel legno consumato con le mie mani, ma so che non me lo permetterebbe. Non ora. Non mai.
Quando finalmente mi ritiro nella mia stanza, la notte è scesa come un velo nero oltre la finestra. Mi siedo sul letto, la coperta di lana avvolta intorno alle spalle, e stringo il ciondolo tra le dita. Sembra pulsare, una vibrazione leggera che mi attraversa la pelle, arrivando dritta al cuore. Fuori, il vento si fa più forte, un ululato basso che sembra formare il mio nome, un richiamo che mi strappa il fiato. Mi alzo e mi avvicino allo specchio appannato appeso al muro, i miei occhi verdi che brillano di qualcosa di nuovo, qualcosa di duro. Determinazione, forse. O disperazione.
“Non posso più ignorarlo,” sussurro al mio riflesso, la voce ferma per la prima volta oggi. “Devo sapere. Qualunque cosa ci sia là fuori, qualunque cosa tu nasconda, mamma… lo troverò.” Il ciondolo sembra scaldarsi sotto il mio tocco, un battito che risponde alle mie parole. E mentre il vento canta il suo lamento antico dalla foresta, so che questo è solo l’inizio. Qualcosa mi aspetta, qualcosa di oscuro e vivo, e non posso più voltare le spalle.