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Romanzi romantici in un solo posto

reader.chapterLa Caccia del Predatore


Dante Rossi

Una pioggia incessante martellava la Foresta di Selvoscuro, trasformando il terreno in un pantano che afferrava gli stivali di Dante Rossi come mani invisibili. Si fermò in una radura isolata, il respiro affannoso che si mescolava al sibilo del vento gelido. La nebbia violacea, densa e appiccicosa, gli avvolgeva le gambe, risalendo come un serpente lungo il corpo. Un ronzio profondo, quasi un lamento, gli perforava il cranio, un’eco del varco che sembrava seguirlo ovunque. Strinse i pugni, le nocche sbiancate, mentre il sangue secco sulle mani si scioglieva sotto l’acqua, tingendo il fango di un rosso spento. Guardò il braccio destro, dove la ferita inflitta dall’energia argentea di quella maledetta ragazza pulsava di un bagliore viola innaturale. Un dolore acuto gli risalì lungo il muscolo, ma non era niente rispetto al gelo che gli stringeva la mente. Una voce, profonda e viscida come un abisso, sussurrò dentro di lui: “Portami la ragazza, o sarai tu la porta.”

Si chinò su una pozza d’acqua nera, il riflesso che gli rimandava un volto che non riconosceva più. Gli occhi grigi, un tempo freddi e calcolatori, erano ora attraversati da venature scure, come crepe in un vetro sul punto di frantumarsi. La pelle attorno alla cicatrice sul sopracciglio sembrava screpolarsi, simile a terra arida sotto un sole spietato. Un sorriso amaro gli sfiorò le labbra, ma non c’era traccia di umanità in quel gesto. “Non sono ancora finito,” ringhiò a se stesso, anche se il tremore nella voce tradiva un’insicurezza che lo divorava. La pioggia gli scivolava lungo la barba incolta, mescolandosi al sudore e alla cenere che gli macchiavano il viso, ricordo di un rituale che lo aveva spezzato più di quanto fosse disposto ad ammettere.

Il ricordo lo colpì come un pugno. La Radura dell’Altare Antico, la lastra di pietra che pulsava sotto le sue mani mentre cercava di reclamare il potere del Sigillo di Umbra, anche dopo che Alina glielo aveva strappato. Aveva inciso rune, versato il proprio sangue, pronunciato parole che non avrebbe mai dovuto conoscere. Poi, l’oscurità lo aveva avvolto. Un’energia corrosiva gli aveva bruciato la carne, facendolo urlare mentre visioni di fuoco nero e distruzione gli inondavano la mente. In quel caos, una presenza si era fatta strada dentro di lui. “Sono il Divoratore di Mondi,” aveva sussurrato, la voce un’eco di mondi spezzati. “Dammi il sangue della ragazza, e il varco sarà tuo. Dominio, cacciatore. Potere.” Dante aveva rifiutato di piegarsi, ma ogni giorno sentiva quelle parole scavare più a fondo, come un veleno che gli corrodeva l’anima. Il prezzo di quel rituale fallito era inciso nel suo corpo, nella ferita che non guariva, nel bagliore viola che sembrava vivo, pulsante come un cuore malato.

Un fruscio lo riportò al presente. I suoi cacciatori, un gruppo ormai ridotto e spezzato, avanzavano alle sue spalle, i volti tesi e gli occhi pieni di ombre. La nebbia violacea li tormentava, insinuandosi nei loro sogni con visioni di morte. Dante poteva vedere la paura nei loro sguardi, la stessa che cercava di reprimere in sé. Uno di loro, un giovane di nome Marco, con i capelli biondi appiccicati al viso per la pioggia, si avvicinò con passi incerti. “Capo, dobbiamo tornare al borgo,” mormorò, la voce tremante. “Ho visto… nei sogni… un’ombra colossale. Mi ha preso. Non possiamo combattere questo.” Dante lo fissò, un sorriso freddo che gli increspava le labbra, ma i suoi occhi tradivano un lampo di inquietudine. “Se temi le ombre, sei già morto,” rispose, il tono tagliente come la lama del suo pugnale runico. “Torna al borgo, codardo, o muori qui.”

Marco scosse la testa, il volto contratto dalla disperazione. “Non capisci, Dante. Non è caccia, questa. È una condanna. Io me ne vado.” Fece un passo indietro, pronto a voltarsi, ma Dante fu più veloce. Con un movimento rapido, quasi animalesco, estrasse il pugnale, la lama che brillava di un’energia instabile. Il silenzio che seguì fu più assordante della pioggia, rotto solo dal tonfo del corpo di Marco che cadeva nel fango, il sangue che si mescolava alla melma. Gli altri cacciatori distolsero lo sguardo, le mani strette sulle armi, nessuno osò parlare. Dante pulì la lama sulla manica del suo giubbotto di pelle, il cuore che gli martellava nel petto non per rimorso, ma per una rabbia che lo consumava. “Chi altro vuole abbandonarmi?” ringhiò, la voce distorta, come se qualcosa di oscuro parlasse attraverso di lui. Nessuno rispose. Il gruppo era suo, ma non per lealtà—per paura.

Ripresero il cammino lungo sentieri fangosi, le tracce di Alina e dei suoi compagni che si facevano sempre più evidenti. Dante si chinò su un pezzo di stoffa insanguinata, probabilmente strappato dagli stracci di quel licantropo, Kael. Un sorriso folle gli attraversò il viso, gli occhi che brillavano di un’ossessione malata. “Sono vicini,” mormorò, stringendo il tessuto fino a farlo sgocciolare di pioggia e sangue. Ordinò ai suoi di preparare trappole rune lungo i percorsi verso la Cripta delle Lamentazioni, un luogo che intuiva essere la loro destinazione. Le storie del borgo, unite alle visioni che il Divoratore gli sussurrava, gli avevano rivelato abbastanza. Se Alina cercava risposte, lì le avrebbe trovate—e lui sarebbe stato pronto ad aspettarla.

Incise rune su pietre e tronchi con il pugnale, ogni segno che pulsava di un’energia oscura, distorcendo l’aria attorno come un’onda di calore. Ogni trappola era un’arma letale, progettata per immobilizzare, ferire, distruggere. La pioggia gli scivolava lungo il collo, ma lui non sentiva il freddo, solo il fuoco della vendetta che gli bruciava dentro. “Non mi sfuggirai, ragazza,” sussurrò, come se Alina potesse sentirlo. “Il Sigillo è mio. Il varco sarà mio.” Ma mentre lavorava, il sussurro tornò, gelido e inesorabile: “Sei mio, cacciatore. Porta la ragazza, o diventerai la porta.” Dante ringhiò, stringendo il pugnale così forte che il palmo gli sanguinò. “Non sono il tuo burattino,” sputò, anche se una parte di lui, nascosta e tremante, si chiedeva quanto controllo avesse davvero.

Durante una pausa, si ritrovò solo al confine del Lago delle Ombre. L’acqua nera rifletteva un cielo squarciato da lampi viola, e il ronzio del varco sembrava più forte qui, un battito che gli scuoteva le ossa. Si chinò sulla riva fangosa, fissando il proprio riflesso. La pelle screpolata, le venature scure negli occhi, il bagliore della ferita—non era più l’uomo che era stato. Una visione lo colpì, improvvisa e brutale: un futuro in cui dominava il varco, un re su un trono di cenere, ma il prezzo era la sua stessa umanità. Il suo corpo si trasformava in un guscio vuoto, un portale per il caos, con il Divoratore che rideva dentro di lui. Con un urlo di rabbia, colpì l’acqua con un pugno, frantumando l’immagine. “Non mi avrai!” gridò, la voce che echeggiava nella foresta. Si rialzò, il respiro affannoso, giurando a se stesso di riprendere il Sigillo, di piegare il varco al suo volere, anche se significava perdere tutto ciò che era stato. La caccia era tutto ciò che gli rimaneva.

L’ultima trappola runica fu completata al tramonto, il bagliore viola che illuminava il suo viso segnato mentre si passava una mano sulla barba, il sangue di Marco ancora appiccicato sotto le unghie. Il sussurro del Divoratore tornò, un’eco maligna: “Sarai la porta, se fallisci.” Dante strinse i denti, il pugnale runico che tremava nella sua presa. Si alzò, lo sguardo fisso nella direzione della Cripta delle Lamentazioni, un giuramento che gli bruciava sulle labbra: “Alina non mi sfuggirà. Il potere sarà mio.” Dietro di lui, nella nebbia violacea, un’ombra colossale si mosse per un istante, un’eco del varco che lo seguiva come un’ombra. Alleato o padrone, non lo sapeva. Ma mentre la pioggia continuava a cadere, e il ronzio gli martellava la mente, una cosa era chiara: la caccia era appena cominciata, e il prezzo, qualunque fosse, sarebbe stato pagato in sangue.